Intervista
Steve Paxton, Folkert Bents (Thoughts on Contact Improvisation)

Paxton, S., & Mazzaglia, R. (2013). Danza E Ricerca. Laboratorio Di Studi, Scritture, Visioni4(4), 251–280. https://doi.org/10.6092/issn.2036-1599/4204

con la concessione di Rossella Mazzaglia , Danza E Ricerca, Laboratorio DI studi, Scritture , Visioni.

Con il permesso di traduzione da Steve Paxton

a cura di Alessandra Palma di Cesnola

traduttrici : Maria Francesca Torselli, Michelle Johnson

foto di: Nadia Benzekri

Thoughts on Contact Improvisation raccoglie estratti di un’intervista al coreografo a cura di Folkert Bents, pubblicata nel 1982 sul periodico “Theatre Papers” e sulla quale Paxton è tornato a riflettere per “Danza e ricerca. Laboratorio di studi, scritture, visioni”. Il testo rappresenta dunque una fonte storiografica, che fotografa la comprensione della contact improvisation a dieci anni dalla sua creazione, e un documento critico, che si arricchisce dell’approfondimento a posteriori e consente un’ulteriore riflessione sull’improvvisazione. Il contributo originario e quello attuale sono sempre distinguibili all’interno di una versione complessivamente inedita del testo, ora curato e introdotto da Rossella Mazzaglia. Tra i temi discussi: la presentazione coreografica del movimento ordinario, una definizione dell’improvvisazione e un’esplorazione delle sue modalità di funzionamento (dal punto di vista psicofisico, oltre che estetico e pedagogico), il rapporto con la vita e con le tecniche attoriche.


 

Pedestrian movement

Steve Paxton [1]: Mi interessa il pedestrian movement  degli anni Sessanta. Non so se tutti intendono la stessa cosa con questo termine, io mi riferisco semplicemente a quello che fa il corpo quando ha un obiettivo. Cioè come interagiscono le persone quando non sono coscienti di se stesse, come si decide di andare al super ed arrivarci senza pensarci coscientemente, come uno si siede o come tocca le cose. Come danzatore, credo di essermi reso conto del corpo attraverso l’allenamento, in seguito ho voluto capire come essere cosciente di me stesso senza essere cosciente dell’essere cosciente[2].

Folkert Bents: Essere cosciente senza sentirsi inibito.

Steve Paxton: Sì, cioè, lasciar fare tutto fluidamente, senza inibizioni. L’accorgersi può diventare inibizione. Pensavo più a come superare questa fase ed entrare in questioni più interessanti. Ho provato la performance dei movimenti normali in teatro. Il paradosso che poneva quella situazione è quasi come un enigma Zen, è implicito nella definizione “comportarsi naturalmente”. Ho convissuto con questo paradosso per circa un decennio e non sono riuscito a venirne a capo, ma ho visto altri riuscire a creare il teatro che cercavo di fare io. Lucinda Childs ha creato una piece, Street Dance, in cui ha messo in un palazzo degli spettatori che guardavano in basso la strada. Gli artisti che partecipavano facevano, per strada, gesti sincronizzati alla musica che gli spettatori stavano ascoltando. Le persone che passavano in strada, a piedi o in macchina, sono divenute partecipi della performance. Mentre il pubblico si concentrava su di loro, le due figure davanti al palazzo sono sparite e tutta la strada è diventata la scena. Quindi l’ho visto fare, ho visto il pedestrian movement  come teatro. Non è impossibile, ma bisogna poter manipolare la situazione. Poi, mi sono interessato alla consapevolezza indotta dal Tai Chi, dallo Yoga e dall’Aikido.

 

La consapevolezza del corpo: Aikido versus Contact Improvisation

Steve Paxton: La Contact Improvisation assomiglia abbastanza all’Aikido in quanto entrambe accoppiano figure e si concentrano sull’uso appropriato e leggero dell’energia in situazioni piuttosto rischiose, ma, mentre l’Aikido è una risposta ad un atto di aggressione, la Contact Improvisation è un atto di danza. Entrambe dipendono in qualche modo dalla formazione o dalla manipolazione delle reazioni istintive. Nell’Aikido sono diventato consapevole dei riflessi istintivi che mettevo in atto per proteggermi dal pericolo che c’era in ogni lezione, spesso lo spazio era poco e pieno di gente che lavorava, si dimenava e cadeva. Nell’aprirti dovevi essere consapevole sia della concentrazione su ciò che provavi a  rappresentare sia degli altri intorno a te.  A volte  esercizi molto attivi erano fatti da tutti contemporaneamente al ritmo in cui ognuno pensava potessero funzionare. La lezione durava un’ora e mezzo, credo, e questa era la situazione praticamente per tutto il tempo. In qualche modo proprio la concentrazione di persone, la mancanza di un ritmo unico comune e di spazio intorno a ogni persona costituivano una parte importante della formazione, perché aumentavano fortemente la visione periferica. Però, grazie a questa capacità visiva, era quasi come se in quella situazione non ci fosse più pericolo, o comunque poco, o forse era il disagio dell’interrompere il lavoro altrui che rendeva più consapevoli. Dovevi concentrarti emarginandoti allo stesso tempo, le due cose nello stesso momento. Credo che anche la Contact Improvisation riguardi questo, ma che per altri aspetti siano opposti totalmente. L’Aikido è un’arte marziale che riguarda una situazione potenzialmente di vita e di morte, mentre la Contact Improvisation è esattamente il contrario: invece di respingere l’altro come fanno le arti marziali, di parare i suoi colpi, gli stai permettendo di entrare nel tuo centro, di avvicinarsi o di dipendere fisicamente dal tuo equilibrio, dal tuo centro di massa, per il  movimento. E tu fai lo stesso, state facendo leva l’uno sulla forza dell’altro nello stesso momento. C’è un’ intimità che l’Aikido non permette, in quanto una persona usa quell’intimità ma l’altra no – l’attaccante è fuori-equilibrio.

 

Folkert Bents: Quindi nell’Aikido si deve cercare di far perdere l’equilibrio all’altra persona…

Steve Paxton: No, nell’Aikido vieni attaccato, è un’arte di difesa, ti difendi dagli attacchi. Ora, quando attacco, non riesco a colpirti senza spostarmi verso di te, devo spostare una parte del corpo nella tua direzione. Se muovo solo il braccio verso di te non è molto, ma se dietro ci metto il mio peso e mi preparo al colpo, allora ho usato il centro del mio corpo insieme al pugno per poter usare tutta la forza nell’impatto, e divento un bersaglio facile se qualcuno mi tira il braccio, invece di assorbire il colpo. Se non c’è un obiettivo, se si sposta, allora perdo – faccio un volo – perdo l’equilibrio. Il corpo lo sa e lo vede. Guardandola in modo astratto sembra una cosa strana, ma uno dei più belli tra i principi particolari dell’Aikido è che se vedi qualcuno che viene verso di te per attaccarti, tu sei un bersaglio.  La mente dell’attaccante è guidata verso questo bersaglio, e quando poi questo si muove, la mente si muove con lui. È un principio importante: guidi attraverso la mente e anche attraverso la fisicità. Nella Contact Improvisation fai esattamente l’opposto, presenti effettivamente una parte del corpo come bersaglio, ma permetti che lo sia anche qualsiasi altra parte del tuo corpo, cioè puoi toccare la spalla invece dell’anca e subito la mente si adatta al cambiamento. In un certo senso la Contact Improvisation è il contrario delle arti marziali, ma questo l’ho capito più tardi. In quel periodo dovevo allenare le persone a diventare più esperte in qualcosa che non conoscevo fino in fondo, per vedere se avrebbe potuto funzionare e come. I problemi dell’insegnamento riguardavano molto: “quanto velocemente si aprono le percezioni?” e l’efficacia dell’allenamento del corpo per questo tipo di lavoro.

 

La percezione, proiezione e proporzione nell’improvvisazione

Steve Paxton: È molto difficile definire l’improvvisazione. Te ne sei mai accorto? Per me è una domanda complicata e strana, mi confondo molto fra percezione, proiezione e proporzione. Talvolta sono parole che insieme compongono un’unica idea e non le posso separare[3].   Hai delle abitudini e ti sembra che non succeda niente ma questo significa che non stai percependo abbastanza bene. Se regolassi i sensi vedresti che in realtà la tua abitudine cambia e si adatta, e tutto questo diventa un bello studio in se stesso. Se guardi la tua abitudine in un ingrandimento,  la vedi fare ancora quella certa vecchia cosa, o rifarla con un partner diverso, ma in realtà non è esattamente così, perché le cose non si ripetono veramente. Tutto questo ha a che vedere con la proporzione che, a sua volta, riguarda il come si percepisce qualcosa. Cercavo di approfondire la questione di come rendere definibile e chiara l’improvvisazione nel movimento, che resti comunque improvvisazione, in modo tale da poter parlare dei principi e degli aspetti del corpo e della sua fisiologia e chimica che sono percepibili.  La questione era far funzionare il tutto, senza nessun prospettiva accademica, solo usando le percezioni e le sensazioni, che sono due cose diverse.

 

Concentrazione e consapevolezza periferica

Steve Paxton (2013): La visione centrale e la visione periferica sono due modi di vedere che interagiscono per dare uno spettro visivo ed assistere nell’orientamento di chi percepisce visivamente l’ambiente. La visione periferica fornisce il campo in cui quella centrale può selezionare un soggetto da osservare più da vicino, lavorando sia per gli occhi che per la ‘concentrazione’ della mente che attua la visione. Naturalmente, non è difficile spostarsi dalla visione centrale alla periferica e viceversa. È più tenue la consapevolezza che, per cambiare focus, si richiede alla visione periferica di fornire la gamma dei nuovi possibili soggetti. Però la Contact Improvisation, benché usi la visione, riguarda più la consapevolezza tattile e cinetica, cioè l’intera gamma delle sensazioni corporee, compresi ovviamente il tocco, la posizione, l’orientamento, l’inerzia (cioè la percentuale dei movimenti relativi o totali). Se comparassimo questa gamma di percezioni con la percezione visiva, quali elementi o condizioni diventerebbero il focus e quali sarebbero considerati periferici? Bene, il focus probabilmente sarebbe il ‘punto di contatto’, l’area del tocco fra i danzatori, che fornisce la possibile informazione operativa per l’improvvisazione che condividono. Quale sarebbe il campo entro il quale questo focus si collocherebbe? Io ho scelto la percezione della gravità, perché mi sembra che il flusso intricato delle informazioni del contatto alla fine si affidi alla gravità e alle interazioni fisiche rese possibili dal legame con la massa sotto la superficie della terra. La gravità diventa il campo, se lo scambio fra movimento e peso diventa il centro. Queste contrapposizioni o contrasti sono destinati a permettere la consapevolezza di entrambe le componenti, simile al modo in cui la visione è accentuata dai contrasti di luce e colore, o come la figura è in contrasto con il terreno. Tutto questo ha senso, ma si deve tenere presente che le razionalizzazioni sono costruite per essere applicate agli esseri umani, più variabili dei fiocchi di neve, ognuno con il proprio percorso di vita, con le varie forze e debolezze, con l’ambizione di danzare, ma anche con le paure, i dubbi, la mancanza di fiducia, la vanità, forse con i cuori infranti, le preoccupazioni, le distrazioni.  Partendo dal piano oggettivo di cosa raccontare agli studenti, l’insegnante diventa l’ascoltatore, guardando e valutando come ogni studente sta reagendo alle complessità del movimento improvvisato e come sta condividendo lo spazio sferico con l’altra persona, un’avventura di gusti e di riflessi, di impulsi e rovesciamenti mediati dalla velocità del contatto e dalle risposte immediate del corpo. C’è un reciprocità fra i partner e, se hanno una comunicazione aperta e calda, arrivano facilmente a dipendere dal corpo dell’altro, quasi congiunti fisicamente nel movimento[4].

Ora, J.J. Gibson ha evidenziato come le persone che portano un bastone non sentano la propria mano ma la punta del bastone stesso. Credo che sia proprio quello che facciamo nella Contact: stiamo usando il contatto e, con questi fenomeni, quando percepiamo attraverso la persona che tocchiamo, possiamo sentire la sua relazione con il pavimento. La Contact Improvisation è basata su questo principio[5].

 

Mi pare che la percezione completa ti permetta di essere sicuro in superficie, o almeno il più possibile, perché l’ equilibrio di orecchi, occhi, senso cinestetico, odore, sapore procura un’enorme quantità di informazioni. Quando ci si concentra molto sulla vista, come ci insegna a fare la nostra cultura, si può essere quasi ignari del fatto che qualcosa sta arrivando, o che il terreno sotto i piedi sta cambiando, si è molto concentrati sugli occhi, la mente è focalizzata lì. In altre parole, si possono ignorare i chiari segnali che stanno arrivando. Non puoi percepire niente di estraneo quando sei così concentrato sulla conversazione.

Folkert Bents: Appena l’hai detto, me ne sono reso subito conto…

Steve Paxton: Te ne sei accorto subito….ecco di nuovo ignorato per un attimo il focus: eravamo concentrati su di esso, poi hai parlato dell’aprirlo e in quel momento l’hai ignorato; anche se puoi sempre tenerne conto, puoi continuare la conversazione. La formazione ne è piena, di questo, é un’esperienza che accade ripetutamente. Sono certo che è una di quelle cose che non ha una fine definitiva. Vai avanti nell’aprire sempre più ai dettagli e dare molta più attenzione ai vari livelli. E’ questa potenzialità, non che ti apri o vieni aperto, ma aprirsi su tutti questi livelli è in sé un viaggio che dura per quanto ci sei, per quanto sei vivo, per quanto sei in movimento.

 

Abitudini tipiche e potenzialità del corpo

Folkert Bents: In qualsiasi modo lo sperimenti, ricado poi nelle mie abitudini percettive e di relazione con il mondo.

Steve Paxton: Ma ora le chiami così, perciò ecco che c’è un contrasto. È già una modifica delle vecchie abitudini perché c’è un contrasto.

Folkert Bents: E so dove vorrò andare. La prossima volta avrò una base di partenza.

Steve Paxton: O forse ti rendi conto che hai certe cose e le vuoi cambiare. Forse però non è possibile cambiarle, perché a mio parere è molto difficile manipolare o affrontare cose così fondamentali per una persona. Però hai l’informazione. Forse puoi trovare un qualche luogo dove, se non vuoi avere più una certa abitudine, la puoi cambiare. Per me il contatto è un mezzo per farlo: si tratta di evidenziare queste tipo di cose, poi se vuoi cambiarle, o se vuoi delle informazioni in più, puoi andare a prendertele.

[…]

Credo che il corpo sia stato disegnato dalla natura, o si è evoluto nella natura, per gettarsi nell’ambiente con grande rendimento. Ma il modo in cui viviamo ora, a partire dall’agricoltura a certe invenzioni come la sedia, è esattamente l’opposto. Osservare il corpo, in particolare a New York, dove vivevo, e vedere la vita dentro la città, era vedere tante persone che guardano la televisione e poi vanno a letto. Si alzano e camminano un po’, poi si siedono sul mezzo pubblico fino all’ufficio, dove stanno seduti tutto il giorno; poi camminano un po’, si siedono a pranzo, tornano all’ufficio e si rimettono a sedere, poi escono a bere e stanno seduti al locale; alla fine vanno a casa e si siedono ad ascoltare la musica o guardare la televisione. È molto comune oggigiorno, ed è tipo l’uno per cento della nostra potenzialità. Vuol dire che con quella potenzialità così minimamente sfruttata, le ossa, i muscoli, gli organi e i sensi sono tutti sia espressivi che percettivi.  C’è un input e un output ovunque, e più ti impegni e ti alleni e ti rinforzi in modo da capire le proporzioni delle cose, più ti adatti a tutti i livelli a quello che accade.

[…]

Più grande è il contrasto che riesci ad estrarre e tenere attivo nella tua vita, più vedrai probabilmente gli elementi che sono ad entrambe le estremità dello spettro. Mi sono accorto che lo stare in piedi è sparito dalla Contact Improvisation. Le persone hanno smesso di rimanere ferme in piedi. […] Per farlo devi rallentare, e molto, e ti devi far coinvolgere in un’attività del microcosmo che è lontanissima dal mondo della stimolazione, del fare e della socializzazione che a quanto pare è la norma[6].

 

Folkert Bents: Facevi lezioni sullo stare fermo in piedi?

Steve Paxton:

Folkert Bents: E non le fai più?

Steve Paxton: No, ma credo che si dovrebbero rifare. Infatti, nel periodo della mia vita del Pedestrian Movement, producevo delle opere più noiose rispetto alla mia cerchia di quel tempo[7]. Queste opere mi affascinavano molto, ma erano considerate abbastanza noiose, sebbene interessanti intellettualmente, in particolare la posizione da tenere era intellettualmente interessante, specialmente così a lungo come facevo io.  Ma per un audience, per qualcuno che era venuto semplicemente a vedere uno spettacolo, guardare un gruppo di persone star fermo per quindici minuti era a dir poco strano[8]. 31 No, non c’era questo grande interesse verso lo stare fermo, e dubito che mai ci sarà, ma credo che sia quel tipo di contrasto che dà al resto, al movimento, i suoi valori. Se non puoi vedere il valore implicito in quello che fai, diventa tutto la stessa cosa. Cinquanta milioni di cambiamenti di posizione in dieci anni, con un risultato sempre in aumento, una scoperta di discriminanti e di consapevolezza dei riflessi e dei movimenti sottili, una capacità di sopportare molto, e poi ci si ferma. Si smette di crescere perché non c’è niente che ci spinge oltre. Non credo affatto di essere arrivato in fondo ancora; credo semplicemente che si diventi così bravi a sopportare, da non perseguirlo oltre. Quindi, c’è il problema di come continuare, se farsi coinvolgere in aspetti di natura emotiva o psicologica. Per questa ragione mi interessa Grotowski, perché ha creato un gioco fra immagine e corporalità e sembra essere incredibilmente ricco e poetico[9]. È per questo che mi interessano tante discipline contrastanti, che cercano di capire cosa fare successivamente, perché credo che siamo arrivati al punto dove bisogna fare un passo, ma non so esattamente quale sia. Credo che probabilmente il prossimo passo sia smettere di preoccuparsi del prossimo passo ed andare avanti e studiare qualcosa altro. […]

Folkert Bents: … all’inizio volevi allontanarti da quelle consuetudini come ad esempio l’uso della visione.

Steve Paxton: Volevo allontanarmi dai tabù sociali. Quando conosci una persona per la prima volta, non l’abbracci, le dai la mano. Nelle lezioni di Contact quasi nessuno si conosce davvero bene, il proprio partner può essere un completo sconosciuto.  Quindi ho creato una regola che ignora il tabù di toccarsi il torso e lo enfatizza, e questo va avanti per un bel po’ di tempo finché non vedo che tutti sono a loro agio, che hanno capito la ragione di questa regola. Poi la regola si allenta e gradualmente le mani vengono messe in gioco sempre di più, come anche le espressioni, gli occhi, eccetera. Sento che certe cose ne mascherano altre,  che le abitudini mascherano le possibilità di esplorare, che la mente cosciente comportandosi, come fa, sulla base di ciò che conosce, e cercando di sapere solo ciò che può immaginare, non vede bene il ricco spettro di possibilità. Quindi, quello che sto cercando è la liberazione da queste maschere, e un lavoro profondo di sintonizzazione del corpo in vari modi. In un certo senso, questa affermazione riguarda cosa può raggiungere il contatto e il perché lo perseguo io; accenna anche  al sintonizzare il corpo all’attività che stai per fare, o lo stato d’animo che avrai, ben oltre il contatto stesso. Puoi pensare al corpo come uno strumento sempre da sintonizzare invece di uno strumento la cui sintonizzazione nella tua vita è mediocre o strutturata o abitudinaria. Non è solo questo infatti.  Il corpo può essere anche allenato a seguire diverse modalità: spero che i danzatori della Contact Improvisation lo afferrino e trovino nuove strade, usando le varie discipline che incontrano o che inventano, per creare le sintonie più adatte, per trovare alla fine una sintonia più propria.

 

Leadership nell’improvvisazione e nell’insegnamento

Folkert Bents: È possibile che la contact improvisation troverà una nuova direzione grazie ad un pensiero di questo tipo?

Steve Paxton: Non lo so, perché c’è la questione della leadership nelle situazioni d’improvvisazione. Come quando segui la formazione di Contact Improvisation, hai un insegnante e segui le sue indicazioni; questo è l’antitesi dell’improvvisazione, crea una dipendenza, è un rapporto gerarchico, e credo che prima o poi dovrà essere eliminato. Gli studenti se ne devono rendere conto per potersi prendere le proprie responsabilità nella formazione. […] Quello che vorrei è che altre persone prendessero subito il volo, assumendosi le responsabilità e facendo le proprie indagini, in base alle possibilità che la forma ci presenta, cioè usando la forma come modello. Si enfatizza spesso il fatto che il movimento sia l’insegnante. In altre parole, dire “Non sono un insegnante ma una guida o un moderatore della situazione o l’organizzatore o un fulcro” è come dire che in realtà è il movimento che fa il lavoro, e con lui in realtà si lavora; non si sta lavorando con un insegnante, ma con il movimento che scopriamo. Cercare di comunicare questo allo studente è fargli assumere le proprie responsabilità, o respons-abilità[10].

Folkert Bents: È un punto di vista politico molto importante a mio parere.

Steve Paxton: Bene, è ridicolo continuare a predicare un tipo di approccio improvvisativo e farlo attraverso un modello di leadership, perché questo crea una dipendenza.

 

Analisi ed emozioni nella danza

Folkert Bents: Quale è il rapporto fra i fluidi del corpo e le emozioni?

Steve Paxton: Sembra che le emozioni emergano dagli stati in cui si trovano i fluidi. Sicuramente le ghiandole, il sistema circolatorio e il fluido spinale causano sensazioni che considero  legate, se non basate, sulle emozioni; anche lo stomaco e i grandi organi del torso come pure lo stato del diaframma.  Sono tutti interrelati e la condizione dei muscoli in questo lavoro è sia di sensori che di attori: quello che sto cercando di fare in molta della formazione è enfatizzare il loro ruolo come sensori – come fossero un organo percettivo; e indicare allo studente come gli sia possibile agire senza un intervento o un pregiudizio (anticipo del giudizio sull’azione) cosciente. È possibile essere testimoni dell’azione, usare la mente come lente, così da poter assistere all’azione, all’emozione e all’immaginario come unica unità. Vorrei una condizione in cui la percezione non sia inconsapevole, ma dove l’obiettivo non sia questo. Dove si possa essere semplicemente consapevoli di percepire. È così con il suono; allo stesso modo in cui ascoltiamo la conversazione ignorando i rumori di sottofondo, mi piacerebbe una situazione in cui si può seguire ed essere creativi nella sfera della conversazione tenendo sempre conto degli uccelli che cantano, delle persone che passano, senza che costituiscano delle distrazioni. La distrazione è un’idea interessante perché si sviluppa in un’emozione più ampia e nella pazienza; distrazione significa che la concentrazione si sposta da una cosa all’altra. Se conti le parti del corpo, puoi concentrarti sulla mano, o sul dito del piede, o sulle tue paure, o sulle emozioni, o sui sensi, ma puoi anche adottare un’ immagine più olistica nominando tutto il corpo, o tutte le sensazioni, in quel caso stai includendo tutte le unità individuali considerate prima. Credo che siano entrambi cose molto salutari da fare. Penso che il punto di vista olistico sia molto vitale, avendo considerato prima tutti i punti individuali. Ma credo anche che osservare tutte le parti individuali sia poco realistico perché sono tutte interconnesse. Se vuoi vedere come si connettono, devi conoscerle analiticamente; se vuoi avere una sintesi più ricca allora devi capirne gli elementi. Quindi è l’equilibrio con cui si gioca, quasi costantemente, con queste due cose. Alcune persone vengono alle lezioni che costituiscono un soggetto molto forte delle proprie sensazioni; non riescono a capire la vita senza che un’emozione li trascini da una parte e dall’altra. Non capiscono che è possibile considerare quelle emozioni in modo leggermente più obiettivo, ma anche analizzare quel certo aspetto di se stessi. Ed è specialmente così nella danza, dove nelle più vecchie tradizioni[11], la proiezione emotiva è una qualità fondamentale; non che venga insegnata molto bene, ma, attraverso la tecnica del movimento, si sta cercando essenzialmente di esprimere una narrazione emotiva. In questa fase, nella Contact come in altre opere post-moderne, la proiezione della narrazione emotiva viene messa seriamente in dubbio. In parte perché credo che una delle domande principali sia: è sano che si immaginino e si rappresentino cose di questo genere, anche se fin dal primo ‘fai così’ ti vengono naturali? Forse per il tuo lavoro sulle improvvisazioni, o perché la tua insegnante intuisce molto bene il tuo carattere e sa quale parte di te mettere in evidenza in una performance; ma dieci anni più tardi farai ancora le stesse cose quindi ti sei portato dietro per tutto questo tempo quei movimenti, quelle abitudini e quelle connessioni emotive. E di nuovo, è qualcosa che nella danza potrebbe portare ad un’adolescenza perpetua, con le proiezioni emotive ed i ruoli che inizi ad assumere a vent’anni, quando forse facevi parte di una compagnia di danza, e dovrai fare quei ruoli e quei sorrisi e quel broncio centinaia e centinaia di volte l’anno.

 

Un paragone con il teatro

Folkert Bents: Sembra che Grotowski abbia tentato di renderlo reale in ogni occasione.

Steve Paxton: Sì. Una cosa che sembra avere fatto nella tecnica è chiedere agli studenti di creare una nuova immagine che accompagni l’azione fisica, perciò mettiamo che tu abbia compiuto in modo rigoroso un’azione fisica rafforzativa, ma ogni volta che lo fai, porti dentro un immagine mentale diversa, e a me sembra  molto sano, perché contrappone due mondi in un modo molto vivace, che ti dà un senso di alternanza, ti sembra un gioco. In tanti pezzi teatrali che ho visto però, sembra che ci siano due serie di immagini mentali, una appropriata alla piece e l’altra di immagini del mondo, in aggiunta alle azioni connesse alle proiezioni pertinenti all’opera; e mi chiedo quanto questa situazione sia sana.  Spesso gli attori non sono persone molto stabili; anche se non so esattamente che tipo di premio dare alla stabilità o quanto  potrebbe essere desiderabile. Tanto per dire, la stabilità potrebbe essere realistica o irrealistica.

Folkert Bents: Spesso le persone si arrabbiano subito se le emozioni vengono mostrate o recitate, e questo è tacciato di instabilità, ma in realtà si potrebbe definire dalla sua appropriatezza alla situazione una determinata fluidità di emozione.

Steve Paxton: Ebbene, dipende da quanto chi mette in scena quelle emozioni si perde o no, se per farsi coinvolgere emotivamente lascia andare la propria base o attraversa così tanti cambiamenti da non ritrovarla: questo significa provare emozioni senza avere una base, senza essere connessi con l’esterno.

Folkert Bents: Ma credi che provino veramente delle emozioni?

Steve Paxton: Pensi che un attore, quando gli viene chiesto di piangere, possa fingere o pensi che il basso cervello, per esempio, creda che ci sia finzione? Intendo dire, l’attore intero piange; il cervello cosciente ha detto ‘OK, ora è il momento di piangere’, ma tutto il corpo deve piangere, le ghiandole, i muscoli, il scheletro, la parte chimica devono piangere.  Credo che l’immaginazione abbia un effetto su queste componenti ma non penso che certe parti del corpo sappiano che stanno recitando. Credo che lo stiano facendo veramente[12].  E il corpo può ripetutamente entrare in questi profondi cambiamenti sera dopo sera – succede veramente?

Steve Paxton: Sì.

[…]

Folkert Bents: Tu hai suggerito che lui [Grotowski] possa usufruire di diverse immagini per ottenere questo stato della sua mente corporea. È un’interpretazione corretta di quello che dicevi prima?

Steve Paxton: Sì, delle tecniche di Grotowski. Ma inoltre Grotowski è una radicale, nuova visione. Non stiamo parlando della gran parte degli attori, ma di relativamente pochi, un numero crescente di persone che lavorano in questo modo.

Folkert Bents: Però che chiaramente hanno molta influenza. Cosa ti interessa nello specifico in Grotowski?

Steve Paxton: Il fatto che lavori con le emozioni e le immagini in questo modo, mi sembra uno strumento molto potente,  perché il passo che ha adottato rende l’attore direttamente partecipe della propria formazione. Non sono passivi, non stanno seguendo istruzioni nel modo consueto; le istruzioni invece dicono: “Prendersi la responsabilità di quest’ area, fare l’esercizio energetico, e allo stesso tempo inventare, essere costantemente coinvolto nel processo di consapevolezza del contrasto fra il mondo mentale e fisico, ed in questo modo dovrebbe diventare una sintesi dell’analisi complessiva della situazione.”

 

Cambiamenti di vita attraverso la danza

Folkert Bents: Per me la questione veramente importante riguarda i cambiamenti permanenti nella mente e il corpo. Mi chiedo se hai visto in te stesso o in altri tali cambiamenti, provenienti dal tuo lavoro. Non parlo tanto dei cambiamenti nei segmenti di tempo straordinari, per esempio il tempo che rallenta, ma sopratutto dei sottili cambiamenti che riguardano le percezioni, la percezione periferica o quella cinestesica, o quello che accade ai processi di pensiero o all’immaginario.

Steve Paxton: Sembra che io abbia un talento più grande per il tempo presente ed è forse per questo che ho creato la Contact Improvisation, o mi sono interessato all’improvvisazione, perché è un atteggiamento della mente in cui mi sono trovato a mio agio. Tutto è a lungo termine e difficile da stabilire, ma temo di avere perso in qualche maniera la capacità di proiettare nel tempo, di pianificare, di occuparmi dello sviluppo dal momento presente a quello successivo, e così via — dieci momenti o anche un anno nel futuro. Sono stato comunque forzato a pianificare e impegnarmi per il futuro, e desidero completare alcuni compiti iniziati che ho dovuto sospendere per poi riprendere. Per queste cose sono molto tenace, invece non sono molto bravo nei dettagli della progettazione. Talvolta mi chiedo se questo non sia il risultato dei dieci anni passati nella Contact, del concentrarmi così tanto sul momento presente. Però, in realtà, sono preoccupato del futuro; forse è un altro motivo del mio stare così tanto tempo nel tempo presente.

Sono cresciuto in tempo di guerra, seguito poi dalla bomba atomica, poi dall’adolescenza, e da un’altra guerra[13]. Poi è arrivato il momento in cui ho iniziato l’università, verso la fine degli anni cinquanta, e quello in cui ho deciso di studiare danza invece di proseguire gli studi universitari[14], in qualche modo era un rifiuto della normale pianificazione del futuro, sai, tutto il solito percorso, un lavoro serio o problemi economici o sposarsi o tutte quelle preoccupazioni considerate normali per gli americani, forse perché la bomba poteva scoppiare, capisci, c’era un senso di disastro imminente. Perciò per tutta la vita la mia generazione ha avuto una costante preoccupazione per il futuro e una continua attrazione per idoli o modelli, come Elvis, The Beatles, come il “chi se ne frega, non ci preoccupiamo, occupiamoci della nostra sessualità, facciamoci le droghe.” In altre parole l’accettare quella che in passato era ritenuta una momentanea, inutile preoccupazione invece di un serio, valutato e solido piano futuro che gettasse la fondamenta della propria carriera, ecc.

È il dilemma dell’uovo o la gallina, vero? Sono cresciuto così e mi sono interessato alla danza e all’improvvisazione, probabilmente perché non riuscivo a prendere sul serio questo mondo di carestie e bombe, di schifosa guerra, la brutta guerra ignobile, la guerra degli armamenti, la disumanizzazione di quell’ultimo atto di aggressione che fino ad allora era stato un atto personale. Ed è forse per questo che è arrivata l’improvvisazione: è meno simile a quegli atti di quasi tutti gli altri, si può vederla come un rifiuto o rifugio da quella realtà. Forse è, diciamo, l’unico percorso positivo disponibile, perché se devi renderti conto che la tua famiglia esisterà in un mondo di scarse risorse e di popolazione in aumento, o con la minaccia della guerra chimica, batteriologica o atomica, sono cose così sgradevoli, forse, a farti capire che il presente e la sua potenzialità sono le uniche cose su cui concentrarti. Si potrebbe dire che mi preoccupo del futuro, ma in modo generico, non avendo la capacità di concentrarmi in modo specifico su ciò che ci porta dal presente in poi. Piuttosto mi occupo molto di cosa faccio in questo istante, di come mi fa sentire, e le tante filosofie e procedure che aumentano le mie potenzialità, in modo tale da occuparmi sempre di più del presente e sempre meno del futuro. E qualsiasi insicurezza si possa provare durante una performance di improvvisazione, quando non sai esattamente quale sia la prossima mossa, sai che nel Karma avrà tutto senso e tutto avrà valore, e che qualsiasi decisione tu prenda sarà in qualche maniera decisiva. Le insicurezze di quel momento sembrano molto leggere al confronto di altre previsioni più accurate, rendendole, per contrasto, più desiderabili.


 

Intervista in Inglese: percorsisomatici.it/thoughts-on-contact-improvisation-steve-paxton/

 


 

[1]          Il testo seguente è stato pubblicato in parte in “Theater Papers”, IV serie, n. 5, dal Dipartimento di Teatro del Dartington College, come la trascrizione testuale della conversazione fra Steve Paxton e Folkert Bents nel 1981. Questa versione in realtà serviva come base per uno scambio d’idee che ha portato poi ad elaborare una nuova edizione complessiva del testo: la trascrizione originale è stata revisionata e ampliata con un contributo dettagliato di Steve Paxton. I titoli in corsivo, le note dell’editore e i commenti di Paxton sono stati aggiunti per dividere i vari temi trattati durante l’intervista. Aggiunte specifiche sono chiaramente evidenziate per il lettore in modo da poter individuare il testo del 1981 rispetto agli interventi attuali. Le comunicazioni via email di Steve Paxton sono citate con il suo permesso. La nuova versione è stata revisionata da Rossella Mazzaglia.

[2]            “La coscienza di sé può manifestarsi come vanità, o come l’opposto, scarsa auto-stima o altri atteggiamenti problematici dell’essere se stessi. Tuttavia, è perfettamente naturale crescere nella coscienza di sé, per esempio accorgersi di un’abitudine poco produttiva, cambiarla o eliminarla. Per un danzatore che passa dall’inesperienza alla capacità tecnica, propongo l’idea della crescita di una parte della mente, tale che tracci i dettagli tecnici dalle sensazioni provenienti dagli esercizi, quando il funzionamento del muscolo e dell’articolazione cambia; in questo modo l’allenamento della danza non è solamente fisico. Inoltre, le sensibilità interna ed esterna sono combinate, la coordinazione del movimento sta in un tempo misurato, l’abilità c’è di adeguare un singolo movimento in un movimento dell’intero corpo considerando anche i minimi dettagli (comunicazione via email di Steve Paxton, 19/12/2013)

[3]            Queste parole non sono ripetute in nessun altro manoscritto o intervista di Steve Paxton. Riflettendo sugli stessi termini con il senno di poi, ha aggiunto ora altri significati ai precedenti: “Evidentemente avevo analizzato elementi dei mezzi sensoriali di interazione con l’ambiente, probabilmente includendo quella con altri danzatori. Per  ‘percezione’ probabilmente intendevo l’essere cosciente di quello che sentivo. La ‘proiezione’ significava per me probabilmente o la  percezione di quello che provavo, o forse la ricerca di qualcosa di non evidente: uno potrebbe accorgersi di una buca nella strada, quindi casualmente evitarla. Più acuto è vedere che non c’è una buca nella strada, quindi non c’è bisogno di evitarla. Si potrebbe usare “Proporzione” per descrivere come ci si adatta ad una situazione: ad esempio quali sono i passi per evitare la buca, ma anche come tutti questi sensi interagiscono per fornire le informazioni. Si può vedere la buca e contemporaneamente sentire una macchina, adattandosi grazie ad uno scarto o una sosta. E se la situazione fosse trascinare una valigia e camminare con un bambino allo stesso tempo? Potremmo proporre circostanze sempre più semplici od elaborate, e fidarci della percezione e della comprensione (proiezione) per dare le proporzioni adatte al contesto, in modo da arrivare in fondo in modo più o meno automatico. Tuttavia, per il danzatore, questi elementi sono la base delle scelte degli elementi sempre costanti della danza. In un movimento fisso della danza, provocherà delle sensazioni percepite come la giusta espressione della mossa in atto, e la sensazione del movimento successivo sarà prevista. Se però, nel movimento improvvisato, le sensazioni propongono possibilità successive, il danzatore dovrà scegliere quella da mettere in atto. Il danzatore sviluppa una coscienza delle capacità di percezione che rende abile e affina il compito del muoversi. Credo che la confusione di cui faccio cenno è, ad un certo livello, essere cosciente delle proprie capacità mentre queste continuano a lavorare senza esserne coscienti, un’attività motoria a due livelli, senza la quale non esisterebbe la confusione.” (Comunicazione via email da Steve Paxton, 21/12/2013.).

[4]             Sebbene dal 1981 Paxton non abbia cambiato il suo punto di vista sulla visione centrale e periferica, ha deciso di chiarire tali concetti per questa pubblicazione. Il testo originale è stato quindi sostituito dalla sua attuale articolazione dell’argomento.

[5]            Nella sua intervista del 1981 e nelle sue note attuali, Steve Paxton fa riferimento a Gibson, James J., The Senses considered as Perceptual Systems, Boston, Houghton Mifflin, 1966. Quando gli è stato chiesto di spiegare questo riferimento, Paxton ha elaborato ulteriormente questo tema: “Attraverso un contatto dipendente dal peso con un’altra persona, sentiamo la terra e le tante sfumature di energia e allineamento che sostengono e attivano l’altra persona. Se ci si sente ben sostenuti, probabilmente è perché stiamo percependo il terreno sotto il partner. Altrimenti è probabile che il partner non sia ben ancorato a terra. Gibson e gli altri usano l’esempio del contatto con un bastone, come per i non-vedenti che lo usano per trovare la direzione. Quasi tutti lo abbiamo visto fare, quindi è un esempio facilmente visualizzabile. Però non è un esempio del tutto appropriato perché presuppone l’effetto all’esterno del corpo umano. Lo stesso evento accade dentro il corpo. Per esempio, come si sa se il nostro corpo è allineato? Come si aggiusta l’equilibrio per avere un sostegno allineato? Le posizioni di ogni parte mobile del tronco, della testa e delle gambe dipendono, per mettersi in allineamento, dalla percezione delle caratteristiche che ha il terreno sotto i nostri piedi. Se si usa una stampella per muoversi, la punta manda le informazioni all’ascella. Se si dipende dal sostegno di un partner, il suo sistema di allineamento è trasmesso attraverso il contatto ed i vari punti dipendenti dal peso.”(comunicazione via email da Steve Paxton, 19/12/2013.)

[6]            “Stare in piedi è stato introdotto nel 1972 come l’evento in cui si poteva osservare la gravità lavorando sul corpo verticale, in cui ci si poteva porre la questione del perché non ci si arrende ad essa, in cui l’armonia delicata dei riflessi stando in piedi si possa veramente osservare e come un certo apprezzamento della velocità e pienezza  possa fornire alla mente un sostegno affidabile nei momenti all’altra estremità dello spettro, le veloci, intricate negoziazioni delle interazioni molto rapide” (Email communication from Steve Paxton, 21/12/2013.)

[7]            Con “la sua cerchia” Paxton qui intende il Judson Dance Theater.

[8]             State (1968)

[9]            Paxton conosceva il lavoro di Grotowski indirettamente, attraverso una descrizione del suo metodo della Dottoressa Anna Furse, allieva di Grotowski: “ha spiegato l’esercizio dell’influenzare con una nuova immagine mentale il movimento fisico ripetitivo. (All’opposto, nella danza, spesso non si ha in mente solo il contare e i movimenti. Grotowski ha fatto un passo avanti, mostrando agli studenti le possibilità della mente durante la disciplina fisica, sovvertendo la tendenza naturale a rendere l’esercizio monotono)”. (Comunicazione via email da Steve Paxton, 19/12/2013.) Sebbene Paxton ammirasse Grotwoski, non ha usato le sue idee o metodi nel lavoro.

[10]         Paxton ha sostituito per questa nuova pubblicazione la parola “libertà” del testo originale con “responsabilità, con ”respons-abilità”. Tuttavia l’uso precedente della parola libertà è significativo. In realtà, una persona può essere responsabile solo per le azioni che fa come uomo o donna libero/a. Non è possibile essere completamente responsabili per le azioni fatte sotto costrizione. Questo è vero nella vita, ma, ad un altro livello, è vero anche nella danza. Più lo studente è lasciato libero di fare le sue scelte, più deve assumersene la responsabilità.

[11]         Per più vecchie tradizioni, Paxton si riferisce a qualsiasi tipo di danza dalla classica fino a Cunningham.

[12]         Col senno di poi, Paxton parla di due esempi che hanno influenzato il suo modo di considerare il teatro all’epoca: uno è il cinema e riguarda in particolare le risposte emotive a film horror o violenti o ai momenti teneri, che suscitano lacrime. In entrambi i casi gli spettatori sanno che stanno guardando una finzione, che comunque suscita le loro emozioni  L’altro esempio riguarda la messa in scena del Marat/Sade di Peter Brook a New York nel 1965. Quest’opera, scritta da Peter Weiss, descrive la vita dei detenuti nei manicomi. Per poter sviluppare i personaggi, Brook e i suoi attori hanno visitato i veri reparti psichiatrici, ma quando hanno messo in scena la loro piece a New York (dopo la première a Londra nel 1964), si inseguivano notizie di problemi psichici che mostrava qualcuno del cast . Sebbene fosse solo una voce non verificata all’epoca, Paxton ricorda di aver pensato che fosse “possibile che interpretare ogni sera i detenuti di un manicomio e la figura preoccupante di De Sade, insieme alla violenza politica  dell’era rivoluzionaria francese, potesse essere davvero destabilizzante.” (Comunicazione via email di Steve Paxton, 19/12/2013.)

[13]         La Guerra di Corea (1950 – 1953)

[14]         Paxton ha frequentato l’università nel 1957.