Simone Forti è nata a Firenze nel 1935, per poi trasferirsi in Svizzera e infine a Los Angeles, dove vive e lavora tutt’ora. È tra le figure più importanti e significative della scena artistica mondiale, portando avanti una ricerca al limite tra danza e performance, per indagare le possibilità espressive del corpo, l’influenza della cultura sui nostri gesti, la capacità di esprimersi attraverso un tipo di improvvisazione sapiente, capace di seguire i movimenti senza regie fisse, ma allo stesso tempo attraverso il filtro di un bagaglio culturale e visivo di elevato spessore. A Milano le è stata dedicata tra dicembre 2019 e febbraio 2020 una mostra personale all’ICA, mentre in autunno la vedremo tra gli artisti selezionati per la Quadriennale di Roma e al Museo Pecci di Prato con un’altra mostra personale.
Harper’s Bazaar Italia propone qui una conversazione con l’artista.
Ha sempre cercato di mettere in scena l’importanza dell’energia attraverso il corpo e i suoi movimenti: da cosa è motivata questa forte fiducia nel dinamismo e nella vitalità?
l dinamismo prevede una grande energia, invece la vitalità ne presuppone poca e si ritrova in molte forme. Tutto questo si collega all’importanza che ha per me l’improvvisazione, che è composizione nel momento e come ogni composizione ha una cornice e un’area di interesse con cui l’artista sta lavorando: quando si crea seguendo l’improvvisazione entrano in gioco anche quelle due.
Io ho improvvisato per esempio il lavoro intitolato News Animations.
Quando penso al momento storico che stiamo vivendo, ho l’impressione che noi stiamo attraversando un tempo molto difficile. La mia performance è quindi un modo di entrare in contatto con i sogni, con lo stato onirico del mio corpo, in risposta alle immagini che giungono alla mia mente. Tutto ciò acquista un significato ancora più importante anche perché in USA il potere politico non si prende cura dei sentimenti e delle richieste delle persone, e io ho paura che le persone possano arrabbiarsi.
Quando improvviso non so il perché di certi miei movimenti liberi, ma loro arrivano a me spontaneamente.
Considerato tutto ciò, qual è la sua relazione con il presente?
Sono felice di essere vecchia, è difficile adesso per i giovani, che investono molta energia nel loro lavoro, ma non trovano sempre un terreno fertile e un luogo di ascolto.
Quanto è importante per lei la presenza fisica e non virtuale delle persone?
È molto importante per me, anche perché non sono brava con l’elettronica. In questo periodo di distanziamento sociale mi sto prendendo del tempo per scrivere poesie e posso fare il mio lavoro originario, di quando avevo ventidue anni: scrivere, esplorare, sperimentare una forma espressiva che non conosco ancora benissimo. So di avere una responsabilità sul lavoro che sto facendo, spiegando i miei scritti, mostrandoli al pubblico… sono molto contenta che le mie gallerie mi stiano supportando in questo.
Che cosa sta leggendo ora?
Sto leggendo André Breton e amo molto la sua apertura. Lui dà l’idea di cosa sta pensando, ma non dà delle strutture complete e finite del linguaggio. Ci sono molti riflessi e io sto cercando di fare lo stesso.
Qual è la differenza tra questo tipo di scrittura e quella che invece ha fatto in libri come Handbook in Motion (1974), Angel (1978), Oh Tongue (2003)?
In quei libri io raccontavo qualcosa, mentre ora si tratta di una scrittura che mi aiuta a esplorare le cose e i pensieri.
Quali poeti la influenzano?
Sicuramente William Carlos Williams, ma in passato non ho letto molto poesia, sto imparando ancora molto.
Che rapporto e che inclusione predilige con lo spettatore?
Ciò che sento è che quando lo spettatore mi guarda io desidero che quella persona si possa identificare con me e che possa immaginare i suoi sentimenti se si muovesse come me. Ogni spettatore, poi, ha un suo bagaglio visivo che influenza ciò che vede: le persone che vengono dall’arte vedono sculture che si muovono, quelle che vengono dalla danza sentono invece il modo in cui i performers si muovono.
Io cerco sempre di essere molto in contatto con il pubblico, in modo che loro possano sentire i movimenti che faccio guardandomi.
Che relazione c’è tra il caso e la sua regia?
So che quando si parla di caso si parla di Cage. Ma il caso non è l’improvvisazione, perché il caso ha in sé la tendenza di andare in direzione delle tue abitudini, quindi non sei sorpreso. Io lavoro con l’improvvisazione.
Chi sono le sue fonti d’ispirazione principali, tra artisti, scrittori, architetti e teorici?
John Cage ha avuto un’influenza molto importante su di me e continua ad ispirarmi. L’ho frequentato negli anni Sessanta e Settanta a New York e mi ha insegnato l’importanza dell’improvvisazione, il senso di essere consapevoli delle proprie sensazioni fisiche e delle risposte che i miei movimenti producono. Forse noi due consideravamo il corpo come uno strumento, forse lavoravamo su come ottenere il massimo dal momento in cui si agisce, su come correre e fermarsi, su come il corpo vive il momento dell’arresto.
Poi sono state figure importanti per me Robert Morris, Joan Jonas, Yvonne Rainer: abbiamo condiviso la nostra giovinezza.
Ha un messaggio da dare alle nuove generazioni?
Penso che adesso l’arte può essere molto molto importante, anche se sta attraversando tempi difficili, ma credo anche che non ho suggerimenti precisi per determinate tipologie di arte. Penso che quando qualcosa ti muove, porta un significato nella tua vita.
Quando noi eravamo giovani, ci ascoltavamo e ci guardavamo gli uni con gli altri: i giovani artisti osservavano i giovani musicisti, questi ultimi i giovani poeti, che a loro volta seguivano i giovani pittori… questo è molto importante rispetto imparare precise e rigide tecniche estetiche di un settore senza guardare all’altro, o seguire delle tendenze.
Lei è nata a Firenze, per poi andare in Svizzera per sfuggire alle persecuzione antisemite e, infine, negli USA. Cosa rappresenta l’Italia per lei?
L’Italia è il luogo da cui la mia famiglia ebrea trae le sue origini, è la casa da cui ha origine la mia famiglia. Io ho vissuto anche a Roma, per due anni, negli anni Sessanta… insomma ho un legame importante con l’Italia.
Ha un sogno nel cassetto?
Vivere abbastanza a lungo per trovare il tempo e il modo di scrivere buona poesia.